Stereotipi e pregiudizi nel posto di lavoro
A cura del dottor Antonio Pio Longo
Psicologo del lavoro e delle organizzazioni
Le aziende e le organizzazioni sono fatte di persone che portano inevitabilmente con sé all’interno dell’ambiente lavorativo le loro credenze, i pregiudizi e gli stereotipi che si sono sviluppati nel corso della loro vita. Questi elementi, radicati nella cultura circostante e nell’esperienza individuale, influenzano profondamente il modo in cui percepiamo e giudichiamo gli altri.
C’è differenza tra stereotipi e pregiudizi. Gli stereotipi sono idee o credenze generalizzate attribuite a gruppi sociali diversi dal proprio. Si manifestano, ad esempio, nei confronti di persone appartenenti a gruppi sociali diversi dal nostro come potrebbero essere i gruppi con etnia diversa, di genere diverso quindi in base all’orientamento sessuale, gruppi diversi sulla base di disabilità o di diversi in riferimento alla fascia d’età, quindi in termini generazionali. Pensieri come “gli svizzeri sono tutti puntuali”, “gli americani mangiano solo fast-food” oppure “i giovani sono pigri” o ancora “gli anziani rifiutano la tecnologia”, sono esempi di stereotipi abbastanza comuni. Sebbene possano fungere da scorciatoie cognitive per organizzare la realtà, risultano spesso superficiali e inesatti perché trascurano le caratteristiche individuali di ogni persona, facendo – come si suol dire – di tutta l’erba un fascio, cioè mettendo un’etichetta uguale per tutti, che sarebbe il processo di categorizzazione utile a ordinare la realtà… ma sommariamente.
I pregiudizi, invece, si configurano come giudizi valutativi spesso negativi, e sono formulati nei confronti di individui o gruppi senza una loro conoscenza diretta approfondita, a priori. Per esempio, affermazioni come “non credo che una donna possa essere un buon leader” o “le persone con disabilità motoria non possono competere in ambito lavorativo” rappresentano atteggiamenti pregiudiziali verso persone che, se non contrastati, possono sfociare in discriminazione.
Quando stereotipi e pregiudizi si traducono in comportamenti concreti, si può arrivare a situazioni più strutturate come il mobbing. Il mobbing, che sarà oggetto del mio prossimo articolo per questa rubrica, è una forma di violenza psicologica sul lavoro caratterizzata da comportamenti vessatori e sistematici volti a isolare o danneggiare una persona. Gli studi purtroppo dimostrano che il mobbing colpisce più frequentemente i gruppi sociali già discriminati, generando conseguenze psicologiche, fisiche e professionali che possono essere ancor più devastanti.
Evitare che pregiudizi e stereotipi sfocino in discriminazione è fondamentale per il benessere organizzativo e per un clima aziendale positivo ed è quello a cui lo psicologo delle organizzazioni e del lavoro è chiamato a monitorare. Infatti, le organizzazioni possono e devono intervenire adottando strategie mirate. È essenziale implementare politiche inclusive, capaci di promuovere la diversità e prevenire atteggiamenti discriminatori. La formazione dei dipendenti in questa partita gioca un ruolo cruciale: corsi dedicati all’inclusione e alla gestione della diversità, alla valorizzazione delle competenze trasversali e alla prevenzione del mobbing e del bournout possono fare la differenza nel migliorare la consapevolezza e il comportamento dei lavoratori.
Un esempio concreto di intervento a cui ho partecipato ad esempio, è quello realizzato in un’azienda di 60 dipendenti dove si era notato un atteggiamento discriminatorio verso alcuni colleghi che presentavano disabilità motoria. Qui, il pregiudizio principale era l’associazione della disabilità motoria con una presunta mancanza di competenze professionali. Per contrastare questa percezione errata, è stato organizzato un corso di formazione incentrato sul concetto di competenza. Durante il corso, attraverso attività di role-playing e formazione esperienziale, è stato spiegato, mostrato e insegnato ai partecipanti cosa siano le competenze e come non dipendano dalla capacità di movimento fisico ma piuttosto dalle conoscenze, abilità e atteggiamenti che sono il frutto di percorsi formativi, esperienze e caratteristiche personali. Si è parlato, ad esempio, di competenze tecniche, come l’utilizzo di software o la conoscenza di lingue straniere, e di competenze trasversali, come la capacità di lavorare in team, l’empatia e il problem-solving. È emerso chiaramente ed inequivocabilmente nella discussione di gruppo, parte cruciale del training al fine di creare consapevolezza, come queste competenze restano inalterate anche in presenza di disabilità motorie. Anzi, l’osservazione comune da parte dei partecipanti (e gli studi scientifici confermano questa osservazione) è stata che le persone appartenenti a gruppi discriminati spesso sviluppano competenze trasversali superiori, poiché devono affrontare e superare quotidianamente sfide maggiori, stimolando la creatività e l’adattamento.
Promuovere la consapevolezza delle competenze reali dei lavoratori a prescindere dal gruppo di appartenenza sociale, quindi dare valore alla diversità, non è solo un imperativo etico ma anche una strategia vincente per il benessere e il successo delle organizzazioni. Lo dimostra il caso IKEA che è solo uno dei tanti esempi di come le organizzazioni hanno capito il valore aggiunto della diversità. IKEA ha sviluppato programmi di formazione continua per i manager insegnando loro a riconoscere e affrontare comportamenti discriminatori. Inoltre, ha implementato spazi di lavoro accessibili e garantito flessibilità oraria per lavoratori con disabilità motoria. I risultati? Un aumento del 25% nella soddisfazione dei dipendenti e una riduzione significativa del turnover aziendale. Infatti, questo tipo di azioni mirate alla consapevolezza non solo aiuta a demolire i pregiudizi, ma genera un impatto significativo nel creare un ambiente lavorativo più inclusivo e collaborativo, quindi più produttivo.